Da oltre trent’anni viviamo nella seconda globalizzazione della storia.
 Una data simbolica può essere il 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, avvenuta in modo pacifico e senza spargimento di sangue.
Quel muro, eretto in poche ore nel 1961, segnava in maniera netta quella che Winston Churchill chiamò la “cortina di ferro” tra Est e Ovest. Scavalcarlo — protetto da filo spinato, guardie armate (“vopos”) e cani addestrati a uccidere — era un’impresa da eroi verso la Libertà, rappresentata da Berlino Ovest, l’isola democratica in piena DDR, occupata dalle tre potenze: USA, Gran Bretagna e Francia.
Molti uomini dell’Est persero la vita nel tentativo di oltrepassarlo.
Ho un ricordo personale: nel 1970, a ventun anni, visitai Berlino. Salito su una torretta dal lato occidentale, osservai l’altra città, quella comunista.
 Ricordo la bellissima Unter den Linden — i Champs-Élysées di Berlino — orribilmente divisa. Dall’altra parte del filo spinato, la Porta di Brandeburgo, simbolo della città e del dramma tedesco.
 È un ricordo indelebile che mi portò all’abiura del comunismo.
Ma la seconda globalizzazione, in realtà, era cominciata già dieci anni prima, con il ritorno del liberismo, incarnato dal presidente americano Ronald Reagan e dalla premier britannica Margaret Thatcher.
 L’URSS stava crollando, grazie all’azione di Gorbaciov, e sembrava aprirsi per il mondo un’epoca di libertà e di pace.
Fu l’inizio dell’era del liberismo, la vittoria storica del capitalismo. Tutto il mondo adottò quel modello di sviluppo, come già era accaduto nella prima globalizzazione, per tutto l’Ottocento fino al 1917, anno della Rivoluzione sovietica.
Il “secolo lungo” e il “secolo breve”
Ecco perché il grande storico inglese Eric Hobsbawm — dal nome difficile da ricordare e scrivere — parlò di “secolo lungo” per l’Ottocento, concluso nel 1919 con l’accordo di Versailles, e di “secolo breve” per il Novecento, chiuso nel 1989.
 Forse oggi dovremmo parlare di “secolo lunghissimo”, perché il Novecento non è affatto terminato.
Il mondo ha adottato un modello privatistico, spinto fino all’esasperazione delle diseguaglianze.
 E se questo è il modello, allora anche la concezione della libertà è in discussione.
Come la definirebbe oggi John Stuart Mill?
 È giusto parlare di post-democrazia?
 Il nostro sistema civile, al tempo di Internet, non è forse un ritorno all’inizio dell’Ottocento?
Domande a cui ognuno dà le risposte che crede.
La stampa privata e la libertà condizionata
Da vecchio giornalista, formato negli anni Settanta del Novecento con il mito della stampa libera, e con l’ammonimento di Lamberto Sechi a distinguere sempre i fatti dalle opinioni, oggi assisto con amarezza alla privatizzazione esasperata della stampa italiana.
Essendo privata, la stampa è diventata un’impresa economica come le altre: l’editore sceglie la propria linea politica e seleziona il personale in base a essa.
 Il giornale pubblica ciò che vuole e dà rilievo a ciò che conviene al suo editore.
I comitati di redazione non hanno più alcun peso politico, né esistono comitati dei garanti o un garante del lettore per assicurare un minimo di equilibrio o pluralismo.
 Nei giornali, piccoli o grandi, non c’è democrazia interna.
Già quarant’anni fa, un settimanale come Il Mondo — prima con Mario Pannunzio, poi con Arrigo Benedetti — non trovava più spazio.
 Oggi non avrebbe forse nemmeno dieci lettori.
La valutazione della notizia è ormai completamente discrezionale, decisa dalla direzione di un giornale chiaramente schierato: o a destra o a sinistra, o, più spesso, col governo o contro il governo.
In un sistema di privatizzazione così estremo, non è possibile chiedere di pubblicare una notizia che si ritiene importante: l’importanza non è più valutata dal lettore, ma dal direttore.
Questo, a mio parere, è lo scenario della stampa contemporanea, a cui si può contrapporre soltanto un pluralismo residuale garantito dai social media, che — pur con tutti i loro limiti — continuano a mantenere in vita una forma, seppur fragile, di libertà di stampa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 